Amici di IdF: Roberta Giaconi, sopravvivere da freelance in Sudafrica dopo il disastro degli azzurri

Che amici ha IdF!!! Persino in Sudafrica…

Mentre il circo miliardario del calcio azzurro ha fatto mesto ritorno in patria, con quasi tutti i giornalisti italiani al seguito,  lei è tra i pochissimi rimasti. Come prima, senza hotel e sontuose  note spese.  Soldi pochissimi.

Per un giorno,  dice, ha continuato a raccogliere “condoglianze” dai sudafricani che simpatizzavano per l’Italia, dopo il disastro degli azzurri in campo. Che ha reso un  po’ più difficile la sua “missione” principale. No, non è trovar belle storie, che per una brava giornalista abbondano. E’ invece quella di riuscire a convincere al telefono capiredattori svogliati e sfuggenti, sprofondati in comode poltrone nei loro uffici in Italia, che quelle storie meritano di esser pubblicate.

Roberta Giaconi,  giovane giornalista incrociata per un periodo a Reuters,  si è “autoinviata” in Sudafrica per i Mondiali come freelance (questo il suo blog Frilanz) . Appassionata, curiosa e coraggiosa, come dovrebbero essere tutti i giornalisti.

Per IdF è lei a meritare un’intervista.

– Come hai deciso di andare in Sudafrica e cosa fai per sopravvivere?

“Il Sudafrica è il mio investimento, una prova per capire se davvero è fattibile quello che mi piacerebbe fare. Sono venuta qui perché ci sono i Mondiali e di conseguenza c’è molta attenzione sul Paese. Pensavo sarebbe stato più facile iniziare qui a lavorare da freelance. Non è stato proprio così. Per il momento sopravvivo dei risparmi accumulati, ma per tre mesi si può fare. Dagli articoli rientra poco e non basta a coprire le spese, ma adesso va bene così. All’inizio ho fatto diversi colloqui di lavoro che sono andati bene (alla faccia dell’Affirmative Action per cui per i bianchi dovrebbe essere complicatissimo trovare lavoro…), ma richiedevano un impegno a tempo pieno e non erano compatibili con la disponibilità immediata che ti chiedono le testate quando ti chiamano. Così ho rinunciato a trovare lavori totalmente diversi quando ho incontrato qui due freelance italiani, un giornalista e un fotografo. Mi hanno fatto capire che se uno vuole fare davvero questo lavoro deve metterci tutto l’impegno possibile e lasciar perdere il resto”.

– Te lo immaginavi così il mestiere di giornalista?
“Non proprio. Nel senso che trovare le storie è il 10% del lavoro, il 90% è trovare qualcuno disposto a pubblicarle. Peccato. Però credo anche che sia soltanto una questione di tempo. All’inizio è sempre difficile, poi le cose migliorano mano a mano che ti fai conoscere e che mandi lavori che vengono considerati buoni”.
–  Come reagiscono i tuoi interlocutori delle redazioni?
“A volte sono molto scortesi, altre volte disponibili. Lavorano comunque con scadenze molto strette, quindi non hanno tempo per seguire e ascoltare. E’ irritante vedere in alcuni casi come manchino di rispetto ai giovani e ai non assunti. Dicono di chiamare e non richiamano, si fanno inseguire, ti lasciano in attesa per settimane di una risposta. Però quando hanno bisogno di te pretendono disponibilità immediata. Mi fa sorridere anche un’altra cosa che per gli stranieri sarebbe incredibile: tutti danno per scontato che tu scriva senza sapere quando e se sarai pagato. Come se la retribuzione del lavoro fosse quasi una concessione e non qualcosa di dovuto”.
– Quali differenze riscontri nelle tue esperienze all’estero con amici e colleghi italiani?
“Secondo me andare all’estero arricchisce sempre. E’ triste scrivere di esteri dall’interno di una redazione milanese ed è anche poco onesto. Scrivi di cose che non sai, sei un compilatore, più che un giornalista”.

– Come ti aiutano le tecnologie?
“Internet è fondamentale, insieme a Skype e telefoni. Per parlare con le redazioni in italia senza spendere un patrimonio. Ormai attraverso Internet è possibile contattare chiunque, non so come facessero prima senza…”.
– La storia più bella raccolta sinora?
“Ce ne sono tante… Una cantante famosa in Zimbabwe che ha ricominciato da rifugiata in Sud Africa; una poliziotta che ha fatto causa alla polizia che le rifiutava sistematicamente la promozione in quanto bianca; un guaritore tradizionale, un sangoma, riverito come un’autorità perché da quando ha 12 anni dice di sognare quello che succederà alla gente della comunità; tre ragazzine di sedici anni, una nera, una bianca e una colorata, che spiegavano cosa è per loro il Sud Africa oggi…”
– L’esperienza piu’ toccante in Sudafrica
“Non so se è la più toccante, ma una di quelle che mi ha colpita di più è stata la visita a una miniera d’oro del Free State. Ho scoperto che sotto i nostri piedi c’erano chilometri e chilometri di cuniculi sotterranei, con una temperatura anche superiore ai 40 gradi. I minatori parlano il fanagalò, la lingua delle miniere, un misto di varie lingue esistenti che ha il solo scopo di far comunicare persone che vengono tutte da nazioni diverse. E’ diffusissimo il fenomeno dei minatori illegali. Sono neri, ma stanno sottoterra anche per 18 mesi e quando escono la loro pelle è pallidissima per non aver visto il sole tanto a lungo”.
– Il Sudafrica in poche righe…
“Per molti versi nelle città hai l’impressione di essere in un qualsiasi paese europeo che all’improvviso si è ritrovato con una classe dirigente africana. Infrastrutture, palazzi, servizi sono occidentali, ma coesistono con una realtà estremamente povera e degradata. C’è ancora una sorta di ossessione per la razza. Bianchi, neri e colorati fanno ancora una vita prevalentemente separata, ma per una questione economica, non più per leggi. La tensione si respira per strada, insieme a una buona dose di violenza, ma poi ci sono anche zone bellissime, ricche, il lungomare su cui si può andare a correre, la montagna, ristoranti e locali che non hanno niente da invidiare a quelli occidentali. Volendo, si può stare qua senza accorgersi dei tanti disperati che vagano nei dintorni. Lo fanno in tanti, barricandosi in case bellissime protette dal filo spinato”.
– Come sei arrivata a fare la giornalista?

Ho studiato lettere antiche, ma ho sempre voluto fare la giornalista. Durante l’università scrivevo per la sezione di Rosignano e Cecina del Tirreno. Mi sono accorta così che il giornalismo è il modo migliore per imparare a conoscere il territorio e le persone che ci vivono. Ho fatto poi una scuola di giornalismo che non mi piaceva, ma che mi ha permesso di fare due stage che invece mi sono piaciuti moltissimo. Uno a Pechino, per l’agenzia di stampa Ansa, l’altro in Reuters nel settore economico-finanziario, dove poi sono rimasta un anno e mezzo. La mia speranza è di poter continuare a fare questo lavoro con entusiasmo, curiosità e dignità. Il prossimo obiettivo sarà quello di imparare a scrivere in modo professionale in inglese per poter collaborare anche con i giornali stranieri”.

– I tuoi interessi?
“Viaggiare, viaggiare e viaggiare. Idealmente vorrei cambiare base ogni tre anni. Il tempo per conoscere bene un luogo prima di iniziare a scoprirne un altro. E poi viaggiare ti apre nuove prospettive, conosci realtà diverse e scopri che tornare in Italia non è quasi mai la soluzione migliore. Vedendo le persone che ho conosciuto in questi anni, ho tratto la conseguenza che noi italiani all’estero abbiamo sempre abbastanza successo perché siamo abituati a lottare per cose che altrove sono normali. Te ne accorgi soltanto quando te ne vai, però”.
– Come vorresti utilizzare questa esperienza sudafricana?
“Vorrei che fosse la prima di tante, sempre che riesca a conciliarla con un rientro economico adeguato a sopravvivere. Spero di portarmi dietro nei prossimi viaggi i contatti ottenuti grazie a questa esperienza. A ottobre dovrei trasferirmi in Australia…”.

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