Guardare ed essere: quella mania di girare video che stravolge la consapevolezza di chi siamo
“Non conta quello che guardi. Conta quello che vedi”.
Questa bellissima frase di Henry David Thoreau (1817–1862), filosofo americano, scrittore e pioniere della disobbedienza civile e dell’ecologismo, grande ispiratore per la cultura americana e per apostoli della nonviolenza come Gandhi e Martin Luther King, rimanda a una capacità di abbinare lo sguardo a una consapevolezza: non solo interpretare l’immagine che gli occhi inviano al cervello, pure guardare oltre e saper cogliere suggestioni visionarie: non solo quel che è ma quel che potrebbe diventare.
Alcuni drammatici casi di cronaca sono segnale inquietante di una consapevolezza che sembra invece confondersi. L’abitudine a riprendere e riprendersi col telefonino in ogni situazione sta mutando profondamente a livello collettivo la percezione di sè, deformandola ben oltre la smania di apparire, che ha dilatato il narcisismo a fenomeno di massa. Quasi che il poter registrare immagini ci relegasse tutti al ruolo di spettatori, che ambiscono ad affermarsi catturando l’attenzione di altri spettatori e abdicando al ruolo di protagonisti attivi, che in alcuni casi possono e devono intervenire, non stare a guardare.
Dalla cronaca a un vecchio profetico film anni Sessanta, “L’occhio che uccide” (Peeping Tom, 1960) del regista britannico Michael Powell agli incubi della bellissima serie tv Black Mirror (annunciata da poco la sesta stagione). Lo Specchio Nero è quello dei nostri telefonini spenti, che come quello usato dal killer di “L’occhio che uccide” possono rimandare un’immagine di noi deformata, quando l’ossessione del “guardare” ci fa dimenticare che prima che spettatori siamo protagonisti attivi, che la consapevolezza, che ci fa “vedere” oltre quel che guardiamo, che l’empatia nei confronti degli altri devono guidare il nostro essere: umani.